
Ed è infatti nell'orizzonte dei Cultural Studies che la prof.ssa Buonanno volge da sempre il suo sguardo sociologico ricordando come la domanda di conoscenza che all'epoca portò alla creazione dell'OFI (Osservatorio sulla Fiction Italiana - inizialmente sostenuto dalla RAI e dal CNR e poi successivamente da Mediaset) era proprio quella relativa all'impatto che l'industria culturale ‘global’ avrebbe potuto avere nella cultura ‘local’.
In regime di monopolio la RAI aveva detenuto il primato di autoproduzione di contenuti, svolgendo così la sua missione ‘pedagogica’ anche attraverso la narrazione di quei classici che amiamo ricordare come i grandi sceneggiati televisivi, grazie ai quali abbiamo assorbito la migliore letteratura ottocentesca, sia italiana che straniera. Alla fine degli anni 80 però le tv private italiane, esordienti sul campo e non ancora in grado di sostenere gli stessi sforzi, diventano il più grande importatore europeo di fiction (soap operas, serial) portando così nelle nostre case un'infinità di prodotti perlopiù americani e latinoamericani. Tutta questa contaminazione di generi e culture rese dunque interessante e necessaria una forma di studi continuativi di carattere quanti-qualitativo, tesa in ultima istanza a classificare e monitorare la continua evoluzione dei contenuti culturali condivisi in Italia (e dei relativi modelli in essi inclusi).
La prof.ssa Buonanno apre qui due significative parentesi: la prima sulla funzione ‘bardica’ o di story-teller che la televisione (in tutte le sue tipologie di programmi) svolge, ovvero quella della costruzione di senso, un fattore di cui si trova risonanza nella funzione di apprendimento che i cognitivisti attribuiscono alle stesse narrazioni che costituiscono appunto la base per la costruzione di conoscenza degli esseri umani; la seconda invece si focalizza sulla ragione del gradimento che gli italiani (ma forse non solo gli italiani) conferiscono alla narrazione seriale in generale e che, a livello simbolico, altri non è che un allontanamento della ‘fine’, un metaforico allontanamento dalla finalità delle cose e dunque in ultima istanza dalla morte.
L'OFI, con il suo
monitoraggio completo e sistematico, costituisce non solo una
generosa banca dati, ma un punto di riferimento per ricostruire la
storia sociale dell'Italia, ricercando quegli indicatori culturali
che caratterizzano di stagione in stagione le piccole e grandi
narrazioni televisive. É infatti attraverso questi indicatori che
si rende riconoscibile negli anni una vera e propria ‘agenda dei
temi’ che di volta in volta l'Osservatorio indica e commenta nei
suoi report annuali. In termini generali viene fuori che la Fiction
italiana è più forte nel racconto del passato - il
passato in quanto tale è sempre un ancoraggio forte in grado
di compensare l'instabilità relativa al futuro - piuttosto
che del presente (anticamera nebulosa di un futuro che davvero non
sappiamo dove ci porterà...).
Dal 1999 emerge come le biografie di santi e religiosi sia sempre al centro dei grandi successi di audience e questo a discapito di una certa secolarizzazione data per scontata, ma forse meno radicata di quanto si pensi. Oltre al sentimento religioso e alle ricostruzioni storiche, gli altri temi che appassionano il nostro pubblico sono le storie di mafia (il grande successo de "La Piovra", peraltro esportato in tutto il mondo), la figura materna (con tutte le implicazioni dei rapporti intergenerazionali e di coppia) e le recenti tematiche sull’immigrazione.
Dalle 200 ore di produzione annuale di fiction italiana l'OFI ne registra ora ben 900, prova che questa modalità di racconto raccoglie molti più consensi di quanto comunemente si creda. E che, scantonando ogni tentazione di snobbare il fenomeno, bisognerebbe imparare invece a conoscerlo meglio, nella sua complessità come nei suoi effetti e nelle sue radici.
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